Vittorio Podestà ha vinto due medaglie d’oro ai Giochi Paralimpici e 8 ori ai Mondiali nella specialità handbike. L’abbiamo intervistato per conoscere meglio questo mondo.
Nato a Lavagna, in provincia di Genova, il 3 giugno del 1973 è stato uno dei paraciclisti più famosi della storia. Con lui abbiamo discusso di alcuni particolari molto interessanti legati al mondo dell’handbike.
Vittorio, ti sei ritirato ma ancora oggi vivi da protagonista il mondo dell’handbike. Ci racconti cosa fai?
“Ho ancora una società sportiva nata con l’obiettivo di condividere l’esperienza che ho in handbike maturata in 17 anni di attività sia da atleta che da progettista di componenti. Mi sembrava un peccato non condividere tutto con altre persone, ho diversi atleti che si difendono bene a livello mondiale e uno è diventato campione mondiale proprio nell’anno che abbiamo fondato tutto. Penso di avergli dato una grande mano. Questa squadra l’avevo fondata nell’anno sabbatico che mi ero preso nel 2018 quando è nata mia figlia. Pensavo di fare la quarta Olimpiade, ma il destino ha deciso diversamente”.
Sport paralimpico ed età, il tuo percorso come l’hai vissuto?
“Va premesso, per chi non conosce lo sport paralimpico, gli atleti iniziano a un’età matura rispetto allo sport dei normodotati per ovvie situazioni. Ci sono anche tanti disabili congeniti che approcciano lo sport molto prima e quindi hanno successi anche da giovani, nel caso di persone disabili da incidente, come nel mio caso, il punto è che si inizia dopo e si finisce dopo. È difficile confermarsi, quando sono diventato Campione del Mondo non avevo maturato l’esperienza fatta dopo che mi ha portato a vincere dal 2012 una serie di titoli importanti. Ho vissuto una fase di difficoltà perché quando diventi Campione del Mondo pensi di dover dimostrare di essere il più forte, ma nello sport non è facile farlo sempre”.
Vittorio Podestà ci racconta il mondo dell’handbike
Abbiamo chiesto a Vittorio Podestà se in handbike ci siano delle disparità tra vari tipi di disabilità come accade spesso nella scherma, dove abbiamo visto anche delle polemiche per diversi tipi di mobilità degli atleti in gara. Lui risponde: “In tutti gli sport paralimpici c’è una divisione in categorie per accomunare atleti con capacità residue più possibilmente simili. In molti sport, come scherma e nuoto, non è facile perché mette dentro tanti tipi di disabilità. A volte ci si mettono anche degli errori, più o meno volontari, delle commissioni mediche che devono assegnare una categoria a un atleta. Per anni siamo stati un’isola felice. Inizialmente eravamo formati da tre categorie, ma ci siamo accorti che eravamo troppo stretti soprattutto nella categoria con maggiore capacità residua come Alex Zanardi che poteva pedalare in posizione inginocchiate, mentre le altre categorie, come la mia, vedono l’atleta pilotare sdraiato e molto areodinamica. Meno potenza del motore, ma più velocità”.
Sugli investimenti in questo campo specifica: “Lo sport, lo sappiamo bene, è diviso tra sport principali e minori a prescindere dal mondo dei disabili. Noi siamo una nicchia ulteriore. Gli investimenti vengono fatti nel momento in cui c’è visibilità e questa arriva dall’interesse. Da quando ho iniziato io c’è stato un boom a Londra di gente che ha seguito la Paralimpiadi. Sono sport che vengono seguiti soprattutto però in queste occasioni ogni quattro anni grazie alla Rai che li trasmette. Il comitato paralimpico fa tanto, quelli internazionali abbastanza. Iniziamo ad avere visibilità e ci sono più investimenti. I mezzi sono molto costosi, perché se ne costruiscono molto meno e la tecnologia è di prim’ordine utilizzata in Formula 1″.